La debacle in Afghanistan e il nuovo (dis)ordine globale

di Simone ZUCCARELLI, Direttore del Programma Transatlantico

La rapida riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani ha scosso l’Occidente e il mondo intero. La caduta di Kabul il 15 agosto sembra aver cancellato in un istante vent’anni di impegno occidentale nel Paese, vent’anni di morti, feriti di guerra, speranze, miliardi di dollari e credibilità investiti. I Paesi occidentali erano convinti della possibilità di aprire un nuovo corso per l’Afghanistan, con l’esportazione del modello liberal-democratico in un Paese dove fino all’occupazione americana non erano riconosciuti basilari diritti umani, in particolare alla popolazione femminile. In questi anni molto è stato fatto e l’impegno ventennale dell’Alleanza Atlantica, con l’importante partecipazione dell’Italia, è indicativo in tal senso. Tutto, però, viene ora oscurato dalla frettolosa e male organizzata ritirata statunitense, che ha restituito al mondo immagini di disperazione e del collasso della struttura statale e militare afgana che, viste anche le ingenti risorse investite, non può che essere considerato come una sconfitta e un fallimento. Restano, ora, numerosi interrogativi e la certezza di essere entrati in una nuova fase storica.

La debacle in Afghanistan palesa, innanzitutto, il ridimensionamento del peso degli Stati Uniti nelAfghanistan]. - PICRYL Public Domain Search sistema internazionale. È stato lo stesso Presidente Biden a illustrarlo con chiarezza nelle ore seguenti la caduta di Kabul: «I will not repeat the mistakes we’ve made in the past. The mistake of staying and fighting indefinitely in a conflict that is not in the national interest of the United States, of doubling down on a civil war in a foreign country, of attempting to remake a country through the endless military deployments of U.S. forces. Those are the mistakes we cannot continue to repeat because we have significant vital interest in the world that we cannot afford to ignore». Washington, a causa dell’ascesa di rivali globali – in particolare la Cina –, non può più concedersi il lusso di un impegno prolungato in un’area del mondo dove non siano in gioco i suoi interessi vitali. Tale consapevolezza era emersa già durante l’Amministrazione Obama – con il tentativo di sganciarsi dal Medio Oriente per riorientare le risorse sull’Asia-Pacifico – e si è rafforzata con l’Amministrazione Trump; ma, probabilmente, è solo con la sconfitta in Afghanistan che si può ritenere definitivamente chiuso il “momento unipolare”. Il declino relativo di Washington ha riaperto le porte alla competizione tra potenze e al ritorno di un sistema multipolare che segnerà i prossimi decenni.

Sono proprio i rivali diretti degli Stati Uniti, in particolare Cina e Russia, ad osservare con attenzione la partita afgana, pronti ad approfittare del vuoto lasciato da Washington. I due Paesi hanno posizioni e interessi diversi ma hanno già annunciato l’intenzione di dialogare con i talebani: per l’inviato russo in Afghanistan, Zamir Kabulov, «the Taliban is much more able to reach agreements than the puppet government in Kabul», mentre Pechino è pronta a sviluppare «good-neighbourly, friendly and cooperative relations with Afghanistan». La vicinanza al teatro afgano e i problemi interni con minoranze musulmane non possono non preoccupare Cina e Russia: allo stesso tempo, tuttavia, il ritiro occidentale presenta anche opportunità. Mosca, innanzitutto, da File:Vladimir Putin (2017-01-17).jpg - Wikimedia Commonstempo sta lavorando per espandere la sua influenza in Asia centrale, con un ritorno progressivo alle terre del “grande gioco”. La necessità di contenere l’instabilità proveniente da sud permetterà a Mosca di rafforzare le relazioni con le ex repubbliche sovietiche. In merito, agli inizi di agosto, in risposta all’evoluzione in corso in Afghanistan, la Russia ha svolto esercitazioni militari in Tajikistan e in Uzbekistan. La Cina, invece, guarda con grande interesse sia alla possibilità di sfruttamento delle risorse naturali afgane sia all’inserimento del Paese nella Belt and Road Initiative. Inoltre, l’Afghanistan risulta importante snodo nell’ambito del progressivo rafforzamento delle relazioni tra Cina e Pakistan. Proprio da Pechino, evidentemente in risposta alla debolezza mostrata da Washington, sono arrivati segnali preoccupanti. L’agenzia di Stato cinese Xinhua ha dichiarato che «The fall of Kabul marks the collapse of the international image and credibility of the US […] the decay of the American hegemony has become an undisputed reality» mentre il The Global Times, anch’esso controllato direttamente dalle autorità di Pechino, ha fatto diretto riferimento alla possibilità di invasione di Taiwan: «Once a war breaks out in the Taiwan Straits, the island’s defense will collapse in hours and the US military won’t come to help». Le evidenti minacce hanno spinto Jake Sullivan, National Security Advisor, a dichiarare che «When it comes to Taiwan, it is a fundamentally different question, in a different context» rispetto all’Afghanistan. Più delle parole, però, contano i fatti e l’indebolimento della posizione e della credibilità americana potrebbero spingere la Cina a tentare l’ambita annessione di Taiwan.

Ed è proprio sul versante credibilità che gli Stati Uniti potrebbero maggiormente risentire il contraccolpo del pessimo epilogo dell’impegno in Afghanistan. Anzitutto, perché nonostante i duemila miliardi di spese impegnate dai soli Stati Uniti – senza contare il rilevante impegno degli Alleati – e il capitale politico investito, il progetto di nation building è fallito. Oltre ad aver distolto risorse da scenari dove gli interessi vitali statunitensi sono maggiormente in gioco – come nell’Asia-Pacifico – il fallimento in Afghanistan rappresenta anche una sconfitta epocale: non solo si è assistito al rapido disfacimento delle Forze Armate afgane – nonostante i circa 88 miliardi di dollari spesi dal 2001 dai soli Stati Uniti per il loro addestramento, equipaggiamento e mantenimento – ma ancora prima vi è stato il collasso politico, chiaroFirst North Atlantic Council meeting at the New NATO Headq… | Flickr indicatore del tracollo dello sforzo ventennale volto a dare all’Afghanistan un assetto stabile. Inoltre, a pesare è stata anche la improvvida gestione del ritiro del contingente militare: la rapida e travolgente avanzata talebana, che ha colto l’Amministrazione Biden di sorpresa e l’ha forzata a inviare nuovamente a Kabul migliaia di soldati per garantire l’evacuazione degli occidentali, con i disperati afgani attaccati agli aerei dell’Aviazione statunitense in partenza, peseranno a lungo sull’immagine di Washington e dell’Occidente nel mondo. Il paragone sollevato da più parti è con la caduta di Saigon, a testimonianza di quanto la credibilità e la capacità di leadership degli Stati Uniti appaiano oggi decisamente ridimensionate.

A peggiorare ulteriormente la posizione statunitense ha contribuito la confusione interna, culminata in una dichiarazione di Biden che ha provocato diverse reazioni critiche. Il Presidente statunitense ha maldestramente tentato di addossare la responsabilità di quanto accaduto sul suo predecessore, Trump, e sugli afgani, colpevoli, a suo parere, di non aver combattuto con sufficiente intensità per il loro Paese. Su quest’ultimo punto, in particolare, le dichiarazioni di Biden stridono Two members of the Afghanistan Military Forces (AMF) stand guard over the village of Markhanai, locatedcon la realtà, dato che le forze di sicurezza afgane hanno lasciato sul campo più di 60.000 uomini dal 2001 a oggi: le cause del collasso dell’Esercito afgano, dunque, non vanno cercate nella scarsa volontà di combattere per il Paese ma nella qualità e impegno della leadership afgana. In aggiunta, a luglio, poco più di un mese prima della caduta di Kabul, il Presidente Biden si era mostrato più che fiducioso sulle possibilità di resistenza delle forze afgane. Nonostante Biden abbia ostentato sorpresa per la rapidità dell’avanzata talebana, l’intelligence americana aveva già avvertito – seppure in ritardo – di tale rischio; inoltre, le agenzie di intelligence avevano previsto il collasso del governo afgano in meno di due anni dalla partenza statunitense e il clima di sconfitta e gli accordi raggiunti dagli Stati Uniti a Doha hanno indubbiamente pesato sul morale delle forze afgane e sulla decisione di abbandonare le posizioni da parte di una leadership corrotta.

Oltre a questo, il Presidente Biden ha più volte asserito che la ragione dietro la presenza statunitense era «make sure Al Qaeda could not use Afghanistan as a base from which to attack us again» e che, su questo fronte, come dichiarato anche dal Segretario di Stato Blinken, gli Stati Uniti hanno riportato un successo. Al contrario, secondo il Presidente, «We did not go to Afghanistan to nation-build». Anche volendo ignorare il permanere di legami importanti tra talebani e Al Qaeda, la posizione di Biden non può che disturbare profondamente gli alleati degli Stati Uniti, Italia compresa, che sono stati impegnati per vent’anni proprio nel processo di ricostruzione, assistenzaFile:Joe Biden (48651032061).jpg e, in definitiva, nation building del Paese. Anche il Segretario Generale NATO Stoltenberg ha ricordato, nella conferenza stampa seguente alla caduta di Kabul, che «Due to our military presence and the support of the international community, a new generation of men and women have grown up in a new Afghanistan». In aggiunta, il Presidente Biden non ha mai fatto riferimento durante il suo intervento al contributo alleato alla missione in Afghanistan, e, come ha ammesso Jake Sullivan, non ha provveduto a consultarsi con i Paesi alleati e partner nelle ore successive alla caduta di Kabul. Le critiche europee non si sono fatte attendere. Anche nel Regno Unito, principale e più vicino alleato statunitense nel mondo, la reazione è stata dura: Rory Stewart, ex Ministro britannico, ha sostenuto che Biden «hasn’t just humiliated America’s Afghan allies […] He’s humiliated his Western allies by demonstrating their impotence», mentre Tom Tugendhat, Chair della Foreign Affairs Committee del Parlamento britannico, ha twittato «Afghanistan is the biggest foreign policy disaster since Suez. We need to think again about how we handle friends, who matters and how we defend our interests».

L’incapacità dell’Europa di far fronte al precipitare della crisi in Afghanistan e la scarsa attenzione mostrata dall’alleato oltre Oceano contribuiranno, inoltre, ad alimentare le critiche in merito alla dipendenza europea dagli Stati Uniti, con il rischio del rafforzamento di posizioni in Europa volte alla ricerca dell’autonomia strategica. Ciò potrebbe indebolire l’Alleanza Atlantica, in una fase in cui è impegnata in una complessa riflessione strategica con un orizzonte al 2030 e provata dal deludente esito afgano. Nonostante l’Europa stessa sarebbe la prima vittima della frattura che si verrebbe a creare nelle relazioni transatlantiche, la perdita di credibilità di Washington potrebbe spingere ugualmente gli europei su questa strada.

Quello che appare chiaro è che l’illusione, coltivata da alcuni esperti, commentatori e politici e alimentata da Biden stesso, sul ritorno di un’America impegnata nel mondo cade con Kabul. Gli Stati Uniti, come preannunciato, intendono sganciarsi dal Medio Oriente per concentrarsi sulla competizione con i rivali sistemici, Cina in primis. La volontà di promuovere i diritti umani nel mondo, punto rilevante nella visione wilsoniana e rimarcato anche da Biden durante la dichiarazione che ha seguito la caduta della capitale afgana, non potrà prevalere rispetto alle esigenze strategiche. America is NOT back: il momento unipolare statunitense si è chiuso definitivamente il 15 agosto 2021, la storia è tornata e, con essa, le dinamiche più classiche e la competizione tra grandi potenze che hanno sempre mosso le relazioni internazionali.